Home » Cordini e fettucce: quello che c’è da sapere sulle fibre per l’arrampicata
Gli alpinisti sanno bene che quando si arrampica è necessario attrezzare dei punti in cui potersi assicurare con un certo livello di affidabilità, così da poter manovrare in sicurezza corda e attrezzatura varia. Questi punti vengono chiamati “soste” in gergo e consistono in due o più ancoraggi alla parete uniti fra loro da uno o più elementi flessibili, quali cordini o fettucce. La sosta sostanzialmente serve ad avere una ridondanza nella “catena di assicurazione”, infatti, nel momento in cui un ancoraggio dovesse cedere rimarrebbe comunque la garanzia di almeno un ulteriore punto di collegamento fra la parete e l’arrampicatore.
In arrampicata le corde svolgono un ruolo cruciale, non si può infatti separare dall’immagine classica dell’alpinista quella della corda e della piccozza. Le principali funzioni di questi elementi flessibili in arrampicata sono essenzialmente due: assorbire l’energia dell’arrampicatore in caso di caduta e fornire un solido “elemento strutturale” per assicurare lo stesso. La prima funzione viene svolta dalle cosiddette corde dinamiche di cui abbiamo già ampiamente parlato in questo articolo, mentre la seconda è svolta dalle corde statiche. Le corde statiche si trovano anche sotto forma di cordini o fettucce ed entrambe queste tipologie di prodotto sono realizzate mediante fibre ad alta resistenza e bassa densità, ma con una limitata capacità di assorbimento energetico. Per questo motivo, le corde statiche non sono adatte ad assorbire l’energia derivante da cadute e sono quindi utilizzate come “elementi strutturali”.
Come tutti i dispositivi di protezione, anche cordini e fettucce devono essere testati secondo stringenti norme tecniche. In particolare, a garantire la sicurezza dei vostri cordini ci pensa la norma europea EN 564 che prevede una resistenza minima a trazione in base al diametro del cordino, fateci caso quando ne acquistate uno dal momento che il produttore è obbligato a riportare la forza di rottura sulla confezione del prodotto. Mentre per quel che riguarda le fettucce la norma di riferimento è la EN 566, la quale analogamente alla 564 obbliga il costruttore a testare a trazione il prodotto così come a riportarne la forza di rottura sulla confezione.
Cordini e fettucce devono resistere al carico statico degli alpinisti, oltre che ad eventuali sovraccarichi imprevisti, così come all’abrasione causata dalle rocce affilate e alle condizioni ambientali più avverse. Al contempo, il materiale deve risultare il più leggero possibile per evitare di appesantire l’arrampicatore, infatti, anche poche centinaia di grammi possono fare la differenza durante un’ascesa in parete. Per questo motivo la scelta dei materiali da utilizzare ricade generalmente su due fibre ad alta resistenza, commercialmente note con il nome di Dyneema® e Kevlar®. Queste fibre rientrano nella famiglia dei materiali polimerici, ovvero quei materiali che comunemente chiamiamo “plastica”, i quali consistono sostanzialmente di lunghe e “pesanti” molecole composte da una determinata unità ripetuta più volte. Il concetto richiama un po’ quello della catena, immaginatevi una catena (molecola) composta da tanti singoli anelli identici (unità ripetente).
Il Kevlar® è il noto nome commerciale di una fibra aramidica scoperta dalla chimica americana Stephanie Kwolek per conto di DuPont, multinazionale chimica con sede in Delaware. Questo particolare polimero appartenente alla famiglia delle poliammidi aromatiche deve le sue incredibili proprietà meccaniche alla presenza dell’anello aromatico lungo la catena del polimero e al legame idrogeno che si instaura fra le varie catene circostanti.
Grazie alla sua densità contenuta unita alla sua resistenza meccanica, il Kevlar trova ormai applicazioni in svariati settori, dai sistemi di protezione balistica fino ai materiali compositi per l’aerospaziale, così come anche i cordini per l’alpinismo. Sono disponibili diverse tipologie di Kevlar con peculiarità che si adattano meglio ad una specifica applicazione piuttosto che ad un’altra, ma in generale le due fibre più utilizzate sono il Kevlar 29 e il Kevlar 49. Ad ogni modo, possiamo spiegare con una frase il motivo della fortuna di questo materiale: il Kevlar possiede a parità di peso una resistenza meccanica otto volte superiore a quella di un cavo di acciaio.
Nome commerciale meno noto è invece il Dyneema® dell’azienda olandese DSM. Questa fibra tecnicamente si configura come polietilene ad altissimo peso molecolare (in inglese Ultra High Molecular Weight Polyethylene, spesso abbreviato come UHMWPE). Il polietilene (PE) è uno dei polimeri più utilizzati al giorno d’oggi, se non addirittura il più utilizzato, a causa delle sue proprietà industrialmente rilevanti. Per esempio, se leggete i dati riportati su qualche confezione per alimentari al supermercato, non farete fatica a trovare la sigla PE un po’ ovunque.
Tuttavia, il polietilene normalmente non è in grado di sostituire materiali strutturali per applicazioni meccaniche, come nel caso di un cavo da trazione per esempio. Per questi compiti più ardui entra in gioco il polietilene ad altissimo peso molecolare, il quale rimane sostanzialmente invariato dal punto di vista della struttura chimica dell’unità ripetente, ma presenta catene estremamente lunghe e pesanti. Il segreto del Dyneema risiede però nel processo di produzione in cui le fibre di UHMWPE vengono estruse in modo da permettere l’allineamento delle lunghe molecole ed ottenere così proprietà meccaniche senza eguali. Non a caso questo materiale viene pubblicizzato come la fibra più resistente al mondo. A parità di peso, il Dyneema risulta quasi due volte più resistente delle fibre aramidiche e quindici volte più resistente di un cavo di acciaio.
Articolo a cura di Axel Baruscotti
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