Bussi sul Tirino, nel cuore dell’Abruzzo, è una delle peggiori “bombe ecologiche” presenti in Italia. Sostanze tossiche come il mercurio e il piombo hanno inquinato per decenni i fiumi ai piedi del parco nazionale del Gran Sasso, e almeno 700.000 abitanti inconsapevoli hanno bevuto acqua contaminata. Dal 2008, l’area è stata classificata sito di interesse nazionale (Sin) dopo la scoperta della discarica “più grande d’Europa”. A distanza di 11 anni, tuttavia, le opere di bonifica non sono ancora partite. E il piccolo borgo della provincia di Pescara è diventato, suo malgrado, l’emblema dell’inefficienza dello Stato, prima nel prevenire, e poi nel dare una soluzione ad uno dei più gravi danni ambientali mai accaduti nel nostro Paese.
La nascita del polo chimico-industriale di Bussi sul Tirino prende il via agli inizi del secolo scorso. Dall'alluminio al ferro-silicio, passando per l’iprite (il terribile gas utilizzato come arma), non c’è quasi nessun sostanza o materiale che non siano stati prodotti a Bussi. Una storia che attraversa tutto il ‘900, con un unico grande protagonista: la società Montecatini (poi diventata Montedison e ora Edison Spa), che ha gestito gli impianti prima di venderli nel 2002 ad un altro colosso della chimica, la multinazionale belga Solvay. Lo sviluppo economico, però, ha lasciato una pesante eredità, fatta di veleni che hanno contaminato la falda acquifera e i terreni circostanti. Fino al 1972, infatti, le scorie della produzione chimica finivano direttamente nel Tirino, affluente del Pescara. Si stima che, al giorno, almeno una tonnellata di sostane tossiche sia stata riversata nelle acque del fiume che attraversa l’area industriale.
Oltre al polo chimico e una centrale elettrica, nell'area sono presenti anche due discariche, autorizzate per rifiuti speciali, in cui però Montedison nel corso degli anni ha sversato in maniera incontrollata tonnellate e tonnellate di rifiuti pericolosi. Interrati lungo il corso del fiume Tirino e nei vicini pozzi dell’acqua potabile che rifornivano migliaia di abruzzesi, ignari del rischio che stavano correndo. Si dovrà aspettare il 2007 prima che quei pozzi siano definitivamente chiusi: solo dopo la scoperta da parte del Corpo forestale di una discarica abusiva (la Tre Monti), dove per decenni sono stati sepolti materiali altamente nocivi, per lo più cancerogeni. Nel frattempo, decine di migliaia di cittadini hanno bevuto acqua contaminata. Nel 2008, l’area è stata inserita nell'elenco dei siti d’interesse nazionale (Sin), considerata dunque da bonificare per evitare danni ambientali e sanitari. Il Sin di Bussi sul Tirino interessa una superficie di circa 232 ettari.
Nelle acque inquinate destinate al consumo umano sono state identificate 32 sostanze nocive. Piombo e mercurio su tutti. Una contaminazione che si è estesa ben oltre Bussi sul Tirino: livelli di piombo oltre alla media sono stati riscontrati persino tra i pescatori dell’Adriatico. Tuttavia, come hanno chiarito i ricercatori dell’Istituto superiore di sanità, non è possibile accertare un nesso causale tra le patologie della popolazione che per anni ha bevuto acqua contaminata e la presenza dei composti chimici rivenuti nei pozzi. Il motivo? Le prime ricerche sono state fatte tardivamente e l’assenza di studi non permette di stabilire, da un punto di vista scientifico, un collegamento tra malattie e acqua inquinata.
A far luce sull'impatto nella salute umana dell’inquinamento a Bussi sul Tirino ci ha pensato il quinto rapporto SENTIERI, pubblicato quest’anno. Per la prima volta i ricercatori hanno affrontato l’incidenza di malattie e ospedalizzazione di oltre 85mila abitanti degli 11 comuni compresi nel sito. I risultati evidenziano “un eccesso, rispetto al resto della popolazione regionale, di specifiche patologie per le quali l’esposizione a contaminanti presenti nelle acque potabili può aver giocato un ruolo causale o concausale”.
“Tra le patologie – scrive SENTIERI – sono risultati in eccesso i tumori maligni dello stomaco negli uomini e del colon retto nelle donne, anche se per entrambi i generi la stima è incerta”. Sono oltre la norma anche i ricoveri per malattie del sistema circolatorio, e degli apparati respiratorio, digerente e urinario. Questi dati – avvertono comunque i ricercatori – richiedono altri studi specifici, soprattutto per quanto riguarda l'effetto del consumo di acqua contaminata distribuita nel corso degli anni dall'acquedotto Giardino.
Con l’istituzione del Sin di Bussi sul Tirino nel 2008, la titolarità della messa in sicurezza e bonifica passa dalla regione Abruzzo al Ministero dell’ambiente. A questa competenza si sovrappone quella del commissario delegato, l’architetto Adriano Goio, nominato il 4 ottobre 2007. Per le operazioni gli vengono affidate ampie risorse finanziarie, pari a 50 milioni di euro. In tutti questi anni, però, i risultati prodotti sono fallimentari, come ha rilevato la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Nella discarica Tre Monti, l’unica azione intrapresa da Goio sarà quella di coprire i rifiuti con un telo (una geomembrana in polietilene ad alta densità, Hdpe). Una soluzione criticata dalla stessa agenzia regionale per l’ambiente dell’Abruzzo (Arta), che rileva come sia insufficiente ad impedire la contaminazione delle acque sotterranee.
A criticare i ritardi nella bonifica ci pensa anche il sindaco di Bussi sul Tirino, Salvatore Lagatta. A maggio 2015, davanti ai parlamentari, il primo cittadino lamenta le poche risorse a disposizione, per giunta individuate all'interno dei fondi del terremoto che ha colpito la regione nel 2009. Ma Lagatta si preoccupa anche della reindustrializzazione del sito e della ricaduta occupazionale. E punta ancora sulla chimica. “E’ opportuno che si dia continuità all'esistente – dirà davanti alla Commissione parlamentare – ovvero alla produzione di cloro e di Eureco, ma abbiamo bisogno di un progetto aggiuntivo, perché dobbiamo ricollocare centinaia di disoccupati che nel frattempo si sono creati sul territorio”.
In tutta questa vicenda, oltre ai colpevoli ritardi nella bonifica, c’è anche l’aspetto giudiziario. Sentenze che nel corso degli anni sono state ribaltate e hanno portato ad un nulla di fatto. Il principale imputato in questo disastro ambientale perpetrato per più di quarant'anni è Montedison. L’inchiesta porta alla sbarra, con l’accusa di disastro doloso e avvelenamento delle acque, diciannove persone, tra ex amministratori, dirigenti e tecnici. Nel 2014, in primo grado, la Corte d'assise di Chieti assolve gli imputati dal reato di avvelenamento delle acque “perché il fatto non sussiste”, e dichiara il non doversi procedere per prescrizione per il reato di disastro ambientale, derubricato da doloso in colposo.
Tre anni dopo, invece, la Corte d'assise d'appello dell'Aquila condanna 10 imputati a pene tra 2 e 3 anni. Il reato di avvelenamento colposo delle acque, comunque, viene dichiarato prescritto. E si arriva al settembre 2018, quando la Cassazione rovescia una terza volta la sentenza e annulla le 10 condanne. Annullati dai giudici anche i risarcimenti chiesti dalle parti civili. “Una sentenza incubo per l’Abruzzo”, la definiscono Wwf e Legambiente.
Chiuso il capitolo penale, resta invece aperto il contenzioso tra il ministero dell’Ambiente, da una parte, Edison Spa e sei ex imputati, dall'altra. L’Avvocatura dello Stato chiede al gigante della chimica un risarcimento di un miliardo di euro, a cui si deve aggiungere un altro mezzo miliardo alla regione Abruzzo per il danno di immagine subito. Da Edison, inoltre, si pretende la bonifica dell’area, mai effettuata finora. “Nel passato l’intero territorio della Val Pescara è stato avvelenato mettendo a rischio la salute di circa 400 mila persone – ha affermato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa – lo Stato non può rassegnarsi a una sentenza penale che ha lasciato un senso di ingiustizia e questi territori senza il dovuto intervento di bonifica. Che quest’azione risarcitoria sia l’inizio di un riscatto per l’intera regione e un esempio per tutto il Paese”.
Ma anche in questo caso si preannuncia una lunga battaglia legale. Edison, infatti, nega ogni addebito e ha fatto ricorso al Tar di Pescara. Nel corso della prima udienza, celebrata a febbraio di quest’anno, il gruppo ha ribadito di non ritenersi responsabile e i suoi legali hanno chiamato in causa Solvay, la società che dai primi anni 2000 è proprietaria del sito. La multinazionale belga, a sua volta, si è detta estranea e ha fatto sapere che non effettuerà la bonifica. La prossima data del processo è stata fissata al 20 gennaio 2020.
Mentre nelle aule di giustizia si deve ancora mettere la parola fine a questa vicenda, la bonifica dell’area inquinata è al palo. A 11 anni dalla scoperta del disastro, le operazioni di messa in sicurezza stentano a cominciare, nonostante lo stanziamento di decine di milioni di euro. A mancare è una firma, come si legge sul sito della regione Abruzzo. Finora, quindi, l’unica cosa certa è il danno ambientale compiuto a due passi dai parchi nazionali del Gran Sasso e della Majella, e il conseguente impatto sulla salute della popolazione, costretta a vivere accanto ad un’autentica “bomba ecologica”.